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lunedì 1 agosto 2016

I Nativi Americani

Dan George, il Nativo americano che impersonava il padre indiano di Dustin Hoffman nel film “Piccolo grande uomo”, era capo della tribù dei Capilano della Columbia britannica. Disse una volta: “Io sono nato mille anni fa, nella cultura dell’arco e della freccia, e nello spazio di una mezza vita umana mi sono trovato nella cultura dell’era atomica… Il mio popolo e io fluttuiamo alla deriva in questa nuova era: non ne facciamo parte, inghiottiti dalla sua marea avvolgente, come naufraghi turbinanti su piccoli pezzetti di terra, vergognosi della nostra cultura, che voi ridicolizzate, incerti della nostra spiritualità e dell’avvenire… Siamo in una riserva, cioè in una sorta di discarica pubblica, perché si è perduto, nell’anima, ogni sentimento del bello… Quanto alla vostra elemosina, io posso vivere senza di essa; ma non saprei vivere senza una condizione umana… Non vi disprezzerei per il vostro paternalismo, ma non m’inchinerò di fronte alla vostra elemosina… Si può parlare d’integrazione prima che vi sia l’integrazione sociale, quella dei cuori e degli spiriti? Senza questa, si ha solo la presenza dei corpi, e le mura fra le due razze sono ancora più alte delle montagne… Vogliamo prima di tutto essere rispettati e sentire il valore del nostro popolo, con le stesse possibilità di vincere le difficoltà dell’esistenza, ma non possiamo riuscire secondo le vostre condizioni, elevarci secondo le vostre norme.”


Un indiano senza nome, nel 1800, dichiarò: “Se un bianco attacca una diligenza si manda uno sceriffo e alcuni poliziotti, se a fare il colpo è un indiano, si parla di rivolta e si invia l’esercito a radere il villaggio.”

Il problema che da sempre esiste tra noi Occidentali e i Nativi americani non sta in queste due dichiarazioni, ma queste due dichiarazioni continuano a porci dolorose domande e a trasmetterci gravi sensi di colpa. L’incontro tra due diverse culture, infatti, dovrebbe essere sempre vissuto come un confronto dal quale apprendere l’uno dall’altro, mai come uno scontro che veda un carnefice e una vittima. Questo in ragione del fatto che dal lontano 1492 a oggi delle cinquecento nazioni originarie dell’America del Nord le stime ci dicono che ne siano restate forse trecento. Stiamo parlando del più grande genocidio della Storia. Cosa sappiamo poi dello stanziamento dei Nativi prima della scoperta dell’America? Gli studiosi ritengono che vi siano stati tre tronconi principali: uno orientale, uno centrale e uno occidentale.

Nella nostra memoria ricorrono soprattutto i primi due, avendoci il cinema western abituati a sentire nomi di tribù quali gli Uroni, i Mohicani, i Sioux, i Cheyenne, i Blackfoot, gli Arapaho, i Kiowa, i Comanche, gli Apache… mai i Modoc, i Tlingit, i Kwakiutl, e via dicendo.

Intorno al 1650, negli attuali stati dell’Illinois e dell’Indiana, troviamo ad esempio i Sac e i Fox, gli Illinois, i Kickapoo, gli Shawnee, i Miami, tutti di lingua algonchina. In un primo tempo queste genti ebbero sede nei ricchi territori di caccia dei Grandi Laghi, ma in seguito furono spinte verso ovest dai più potenti e agguerriti Irochesi e Chippewa, stabilitisi in quell’area molto tempo prima di loro. Più tardi una parte degli Shawnee migrò a sud presso i Creek, un’altra nell’Ohio. A ovest del Mississippi troviamo i Caddo, gli Wichita, i Pawnee, genti molto probabilmente giunte in quei luoghi da sud-est.

Gli Cheyenne, Tsi-tsis-stas nella loro lingua, ovvero il “Popolo Magnifico”, divisi in Cheyenne Settentrionali e Meridionali, dovettero attraversare il fiume Missouri, provenienti dal nord, per entrare nelle pianure dell’“erba bassa” a partire più o meno dal 1785. In seguito gli Cheyenne Settentrionali si fermarono sul fiume North Platte (Colorado, Wyoming, Nebraska) e sullo Yellowstone, e i Meridionali sulle Smoky Hills dell’Arkansas e del Kansas. Nelle loro nuove sedi vennero a contatto con gli Arapaho, le “Nuvole Azzurre”, i loro alleati di sempre, anch’essi di lingua algonchina. Verso il 1700 si suppone siano calati sempre dal nord gli Shoshoni, i Comanche, i Kiowa di lingua atapaska. I Comanche dal canto loro spinsero più a settentrione i Tinde e gli Apache, occupandone le loro sedi del Montana, del Wyoming e del Kansas. In seguito, con ogni probabilità dopo l’acquisizione del cavallo, Kiowa e Comanche posero la loro dimora definitiva nel Kansas, nel Texas e nell’Oklahoma meridionale, così da lasciare definitivamente il Montana del sud nelle mani dei Crow di lingua siouan, grandi nemici degli Cheyenne, degli Arapaho e dei Lakota sioux, mentre il Montana del nord rimase ai Blackfeet di lingua algonchina. Questi indiani erano stretti congiunti della grande Nazione dei Teton Dakota che occupava i grandi territori di caccia del Sud Dakota.

Contrariamente all’opinione comune, il termine sioux (contrazione franco-canadese della parola chippewa Nadowe-is-iw, vipera) non designava un singolo gruppo ma diverse genti aventi in comune la lingua: Crow, Gros Ventre, Mandan, Omaha, Osage, Sisseton, Whapeton, cui si riconnettono anche i gruppi più importanti dei Santee, o Dakota, composti dalle due tribù dei Mdewakanton e Wahpekute, dei Nakota (Yankton, Yanktonai, Assiniboin) e dei Lakota, ovvero i Teton sioux, “Coloro Che Abitano la Prateria”: Hunkpapa, Sihasapa, Minneconjou, Itazipcho, Sicangu, Oohenonpa, Oglala. Furono i Teton che divennero l’avanguardia occidentale degli Ocheti Shakowin, il “Consiglio dei Sette Fuochi”, una confederazione altamente civile composta dalle sette suddette tribù. Scrisse in proposito Frederick Hodge: “…I Sioux sono universalmente riconosciuti come i prototipi più evoluti, fisicamente, mentalmente e moralmente di tutte le tribù occidentali. Il loro valore non è stato mai messo in discussione dai bianchi e da altri indiani ed essi sconfissero e soggiogarono tutti i loro rivali.”

Dakota, Nakota, Lakota – “i Parenti” – vengono pertanto chiamati indifferentemente Sioux, anche se tale denominazione è di solito riferita ai Teton, gli impetuosi cacciatori di bisonti delle praterie.

Quanto detto solo per citare una piccola parte delle cinquecento Nazioni di cui si è detto prima. A questo punto pare legittimo domandarsi quanti fossero gli indiani delle due Americhe prima che gli Europei vi sbarcassero. All’alba del 3 agosto del 1492 le tre caravelle salpano dal porto di Palos per le Indie per la via d’occidente, approdando invece nei Caraibi. In soli venticinque anni le attuali isole di Cuba, Santo Domingo, Giamaica, e Portorico risultarono svuotate del 90 per cento della popolazione originaria; una manciata d’anni dopo del 100 per cento. Stessa sorte toccò al Messico, la cui popolazione da venticinque milioni di abitanti nel 1519 scese a un solo milione dopo appena qualche decennio.

Per farla breve, dopo un secolo e mezzo dal fatidico 1492, dei circa settanta-ottanta milioni di abitanti originari – un quinto dell’intera popolazione del mondo di allora – ne erano rimasti in vita non oltre il cinque per cento, vale a dire circa tre milioni e mezzo.

Corre l’obbligo il ritornare alla mitica epopea del Far West e al territorio delle Grandi Pianure del Nord America, una superficie pianeggiante presso che priva di vegetazione arborea, solcata da fiumi poco profondi, soggetta a piogge assai scarse, contraddistinta dal norther, un vento umido o asciutto, e dal blizzard, il fenomeno atmosferico più feroce che precipita accompagnato da nevischio accecante. Clima dunque continentale: quaranta e più gradi sopra lo zero d’estate, trentacinque-quaranta gradi sotto lo zero d’inverno. Fauna: poche specie di animali, una sola rilevante, al punto d’avere reso possibile l’adattamento dell’uomo a una terra così poco ospitale, da condizionarne totalmente usi e costumi: il bisonte.

Settanta-ottanta milioni erano i Nativi delle due Americhe, forse altrettanti i bisonti prima che il flagello dell’uomo bianco si abbattesse su di loro.

La quasi totale estinzione del bisonte, al fine di piegare la resistenza indiana, provocò danni irreparabili all’ambiente. Per migliaia e migliaia di anni, infatti, il loro letame aveva reso fertile e geologicamente stabile il suolo di quel mondo. Stabilità che l’era dei fertilizzanti chimici ha annullato in un breve lasso di tempo, così da permettere ai poderosi venti provenienti dal nord di frantumare l’humus distruggendo una volta per tutte l’ecosistema delle Grandi Pianure.

Nei tempi dell’abbondanza era difficile credere che un giorno i bisonti potessero scomparire dalla faccia della terra. “Fin dove l’occhio poteva giungere, la contrada nereggiava di innumerevoli mandrie” scriveva il capitano Benjamin Bonneville. Resoconti di testimoni oculari riferiscono che occorsero tre giorni perché una sola mandria di bisonti attraversasse il fiume Missouri, e come mandrie di due, tre, quattro milioni di quegli animali coprissero la terra ammassate su aree di dodici, sedici chilometri in larghezza e lunghezza.

Solo dal 1872 al 1874 furono abbattuti dai cacciatori e dagli scuoiatori bianchi ben tre milioni e settecentomila bisonti, non più per le loro pelli, bensì per le loro lingue, considerate una vera leccornia nei ristoranti delle grandi città dell’Est. Le Grandi Pianure si trasformarono in quegli anni in un vero e proprio cimitero: il fetore delle carcasse abbandonate sul terreno ammorbava l’aria per centinaia di chilometri. Di quell’ingente numero di animali uccisi risulta che appena centocinquantamila furono quelli abbattuti dagli indiani per la loro sopravvivenza.

Un’antica leggenda narra che quando sparirà il bisonte sparirà pure l’America. Che ci si voglia credere o meno, sta di fatto che, grazie a una politica di ripopolamento attuata nei grandi parchi americani, questo splendido e antichissimo animale è in continua crescita. Con lui anche l’indiano d’America. Dopo il massacro di oltre trecento vecchi, donne e bambini, avvenuto a Wounded Knee nel 1890 – massacro che chiuse definitivamente l’epopea del Far West-, Alce Nero, il grande wicasa wakan, “uomo sacro” dei lakota, profetizzò che alla settima generazione il cerchio sacro sarebbe rifiorito, e con esso il “Popolo degli Uomini”. Oggi è il tempo della settima generazione. Il tempo della rinascita è dunque cominciato.


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